Ernesto Mattiuzzi      (1900 – 1980)

David Maria Turoldo (1916 – 1992)

 Prefazione al libro “Il volto della povertà – nell’arte e nella poesia”

 A proposito della povertà, “ricchezza” o necessaria risorsa di umanità secondo David Maria Turoldo.

   È lo stile o la passione che comunica la lettura delle pagine turoldiane a consentirci di accostare parole che a noi solitamente paiono opporsi o vengono spesso usate in modo alternativo: povertà, stato di indigenza o di bisogno da cui rifuggire; ricchezza, abbondanza o sovrabbondanza fino al superfluo, sogno coltivato, consciamente o inconsciamente, come sicurezza del possedere e serenità del vivere; minaccia sempre incombente, l’una; desiderio mai abbastanza compiuto, l’altra.

Altri binomi, anch’essi contrapposti, padre David fa coesistere nell’espressione del suo pensiero e del suo modo di percepire e di interpretare l’umano, quali: speranza/disperazione, pace/lotta e perfino ribellione…

Il «volto della povertà» che esce da molti versi e pagine di Turoldo è un volto non solo esteriore, di chi è in condizione mancante o carente di mezzi di sussistenza, ma anche interiore, un sostanziale atteggiamento spirituale che rende “umana” la vita, intensa l’esperienza, giusta la relazione con uomini e cose. Un vecchio monaco diceva: «La povertà è l’arte di lasciare le cose prima che esse ti lascino»; e Turoldo scrive: «Rinuncia è ricchezza più vera!» («Nostra condizione», in O sensi miei…, Rizzoli, Milano 1990, p. 423).

 Nella povertà esteriore, materiale Giuseppe Turoldo, poi fra David Maria, apriva gli occhi in quel Friuli allora segnato dall’obbligata emigrazione, spogliato per giunta dalla «stupida» guerra, che si era portata via la gioventù e aveva insanguinato e pestato città e campagne del nord-est laborioso e forte – ora anche un po’ sazio e dimentico –, non appiattendone tuttavia quello spirito resistente che riusciva a rendere vivibile e perfino gustoso quell’abitare che era fatto di “poco”, di quel poco che era concesso alla gente povera, senza degradarne la qualità spituale e morale dell’esistenza. «Il povero, i cibi del povero, i suoi gusti sono […] una rivelazione di Cristo» scriverà lo stesso padre David, e, rivolgendosi ai ricchi: «Voi non sapete cosa era quella nostra minestra di poveri, com’era buono il nostro orzo. E non ci umiliava che lo mangiassero anche i cavalli, ci pareva anzi di poter diventare pure noi forti come i cavalli. Difficile che voi sappiate come erano quelle cose “naturali”, e meno ancora cos’era la comunione con le messi e i campi e le piante. Bisogna essere poveri (non miserabili, ma poveri: miserabile può essere anche il ricco) per sentire la fraternità delle cose» (Mia infanzia d’oro, Scheiwiller, Milano 1991, pp. 34 e 25).

La condizione povera addestrava al senso della dignità, alla compostezza, alla solidarietà, al rispetto, alla resistenza davanti a ogni umiliazione o sopraffazione. Elementi tutti che possiamo leggere anche nei volti, negli atteggiamenti e nelle scene usciti dai tratti magistrali e creativi dell’arte di Ernesto Mattiuzzi, documentati anche nel presente volume, che vede la luce per iniziativa di Mario Mattiuzzi.

Turoldo era poi cresciuto per tutta l’infanzia nella sua «terra ghiaiosa e avara», «bruciata» (Ivi, pp. 23 e 29), emarginato perfino dal suo ambiente, che spesso diventava spietato nei confronti del “diverso”, timido Bepo, «spaventasseri», «come i compagni lo chiamavano», insieme ad altri nomignoli di cui «lo caricavano» i compagni «isolandolo sempre più» (cf. Mia infanzia d’oro, La Locusta, Vicenza 1980, pp. 10ss).

  Tutte queste esperienze grevi, memoria mai cancellata e sempre presente, sono state trasformate dalla poeticità, ma soprattutto dallo spirito di padre David in una radice profonda, in cui poi si sono innestate le successive vicende in cui la sua vita e la sua opera hanno portato un contributo geniale e creativo di pensiero, di linguaggio, e specialmente di passione autenticamente e fortemente umana. In particolare, questa radice si è quasi naturalmente combinata con le coordinate strutturali su cui la sua esperienza religiosa, la forma di vita entrando nell’Ordine dei Servi di santa Maria, si è andata costruendo e consolidando, quali, appunto, la povertà, il servizio, la bellezza. Così pure la partecipazione attiva alla Resistenza e poi il successivo ruolo culturale che lo vide impegnato in prima fila nella ricostruzione civile della società post-bellica, nella promozione dei diritti umani, della giustizia, della pace, nel rispetto e nella valorizzazione delle diverse culture e religioni, nel proclamare ovunque la sua fede e il suo amore per l’Uomo, forza attinta direttamente dall’Amore che lo ispirava e lo seduceva, quello di Gesù Cristo che si era fatto uomo, il più povero, «ultimo», «perché nessuno si senta escluso!» (D.M. Turoldo, inno «Dio che sei l’unità»). Allo stesso modo erano stati ispirati e sedotti, sino a fonderli in una amicizia che faticava a sopportare le distanze, gli iniziatori dell’Ordine dei Servi, quel nucleo iniziale di uomini fiorentini che avevano lasciato tutto, anche le rispettive famiglie, per tradurre con una adeguata forma di vita, singolarmente e insieme, quell’amore di Cristo che libera e unisce più di ogni altra energia. «Il sangue non conta niente da solo. La linea del sangue può essere una trincea di oscuri istinti, di interessi a volte mortali. Solo l’amicizia ha il divino potere di superare il sangue, il censo, la razza, e fare che due esseri veramente si amino, confortati dalla stima dell’uno per l’altro, accettando tutti e due la rinuncia a prevalere, e a espropriarsi per l’uno per l’altro. (E ho scritto che anche la chiesa, se vuole essere vera, non può essere che una chiesa di amici. Così la città se vuole essere umana. Invece…). Invece “desolate selve di sassi le case». […] Tempi grami viviamo. Tempi senza amicizia. Mondo senza fanciulli. Siamo tutti dentro un sistema nel quale l’uomo non conta più nulla. È il sistema più disumano e ateo che si possa immaginare. Per questo crescono le solitudini, e le desolazioni, e la disperazione» (D.M. Turoldo, «Rapsodia dell’amicizia, in Servitium iii, 31 (1984), pp. 61-68).

 

Sono l’amore e la fraternità fondata sull’uguaglianza a creare la “fame e la sete” di giustizia, dalla quale soltanto può scaturire una vera pace. Turoldo è “voce” – e tuonante di profezia – della beatitudine evangelica: «Beati gli affamati e assetati di giustizia». E si tratta di una giustizia distributiva, quella che fa sì che a ognuno non difetti il necessario, venga riconosciuto il diritto alla dignità e all’inalienabilità della coscienza, ma anche quella che fa stare dentro i propri limiti, che, mentre rivendica l’identità della persona, della cultura, ecc., riconosce e rispetta quella altrui, a cominciare da quella di Dio stesso. È la giustizia che non viene appagata dalla precisa osservanza delle leggi, dalla condanna e dal castigo adeguati al male commesso, da una equa corrispondenza al merito, ma quella che desidera la salvezza, la felicità, il ben-essere dell’altro anche a costo della propria incolumità; quella invece per cui si arriva ad attribuire a un uomo l’appellativo di “giusto”, quella che nasce dal dono gratuito, dall’offerta di sé, da una povertà autentica, scelta come “regola” dell’economia a tutti i livelli.

L’uomo vero, “giusto”, deriva soltanto da un processo che liberi dalle cose (dalla «roba»: «è la roba che ci divide!» direbbe padre David) e dal desiderio crescente del loro accumulo. Quasi, appunto, che la grandezza e il valore dell’uomo e di un popolo si misurasse dalla quantità di ciò che possiede e non piuttosto dalla qualità umana delle condizioni di vita di ciascuno e di tutti. Scrive, tra l’altro padre David a questo proposito: «La prima condizione per essere felici e far parte di una società felice è la povertà», «condizione per formare una società ragionevole, cioè umana; mentre nella ricchezza non avremo che una società irragionevole e disumana». «Due logiche in conflitto [….] non dico “logica della fede” contro la “logica della ragione”, no! Perché non è secondo ragione, ad esempio, arricchire a danno degli altri; […] E compito della ragione è soprattutto aiutare la fede a vincere la paura. Dalla paura nasce, ad esempio, il bisogno di sicurezza; dalla sicurezza la necessità della forza; dal ricorso alla forza l’affermazione di sé, anche contro gli altri. Da qui il bisogno di difendersi, l’opzione di ciò che è più utile, di ciò che più mi conviene, ecc.» (D.M. Turoldo, «E allora cosa fare?», in Lettere dalla Casa di Emmaus, Servitium, Sotto il Monte 19962, pp. 118-119).

E infatti è «impossibile che ci sia la pace sulla terra fin quando non è risolto il problema del rapporto con le cose», dice padre David («La prima pace», in Lettere dalla Casa di Emmaus, cit., p. 123). «Non ci può essere pace sulla terra finché ci sarà un solo povero umiliato e offeso nel mondo. Ma per questo bisognerebbe che la chiesa – almeno la chiesa – fosse chiesa dei poveri, essa stessa chiesa povera; non bastando neppure che sia chiesa per i poveri. O è o non è.

E infatti non è. O almeno, così com’è, non convince, non persuade nessuno. Perché non può stare, ad esempio, all’ovest col sistema, e all’est contro il sistema; in Europa in un modo e nell’America latina e nel terzo mondo in un altro. Qui con le multinazionali e là con i poveri. Perché, i primi a non crederci saranno precisamente i poveri» («I poveri: profezia che attraversa la storia», in Lettere dalla Casa di Emmaus, cit., p. 111).

 Auguro al lettore di trarre profitto dalla contemplazione di queste opere di Mattiuzzi, dalle quali cogliere il messaggio di semplicità e di spontaneità, non per effimero sentimento di nostalgia o per commiserazione (o spregio?) di tempi che sono fortunatamente passati, ma per percepire quei sapori che alla vita conferiscono grazia e bellezza. I testi, che sono stati scelti dalle opere di padre David M. Turoldo da Mario Mattiuzzi, accompagnino favorendola la ricezione silenziosa e benefica della rappresentazione di frammenti vissuti con arte e bellezza dalle nostre genti e che fanno ancora grande e nobile la memoria segretamente custodita dalle nostre povere terre, memoria che può sostenere la fatica del nostro oggi, che forse sente nuovamente sul collo il pesante fiato della crescente indigenza, di un immiserimento emarginante e intollerabile di troppi poveri e disperati.

Tempo è di tornare poveri

per ritrovare il sapore del pane,

per reggere alla luce del sole

per varcare sereni la notte

e cantare la sete della cerva.

E la gente, l’umile gente

abbia ancora chi l’ascolta,

e trovino udienza le preghiere.

 E non chiedere nulla (D.M. Turoldo, «E non chiedere nulla», in O sensi, cit., p. 617).

 Espedito D’Agostini

Priorato S. Egidio

Testo tratto dalla prefazione del libro “Il volto della povertà”. La presentazione del libro è stata organizzata dal Centro Humanitas e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di   Conegliano  svoltasi presso l’ex Convento di San Francesco in Conegliano nel Maggio 2009. 

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